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TENOCHITITLÀN ON MY MIND

Cinque giorni a Città del Messico sembravano tanti, e invece. La vastità degli spazi, il traffico caotico e statico allo stesso tempo, la quantità di cose belle da vedere alla fine hanno reso questi giorni fin troppi pochi per entrare nel tessuto fitto e intricato di questa che è molto più di una città, è un mondo. Alla fine siamo riusciti a spostarci da monculonia in centro. Hotel follemente bello in una corte di un palazzo storico a due passi dallo Zocalo, pieno di negozietti e ristorantini che ti cavano i pesos fuori dalle tasche senza nemmeno troppa fatica. A noi poi che siamo soggetti fin troppi facili. Che qui la vita è nelle strade e le strade sono la vita. Come se la città fosse un continuo mercato a cielo aperto dove si compra e si vende qualsiasi cosa. Le vie intere, come le corsie di un supermercato, offrono monoprodotti e monoservizi: la via degli stereo, la via dei ricambi auto, la via degli idraulici, la via dei vestiti da sposa seguita a ruota dalla via dei vestiti per i battesimi e così via. E poi il cibo dappertutto: un tacos a 10 pesos, mezzo euro. Ogni cinque metri c’è qualcuno che cucina qualcosa. L’odore è continuo. Qui si mangia ininterrottamente a tutte le ore, ovviamente per strada, in piedi e rigorosamente con le mani. Ed è tutto intricato e contorto come i cavi della corrente che si aggrovigliano sui pali della luce e al centro degli incroci. Sembra che tutto possa crollare da un momento all’altro. E invece funziona tutto. (continua…)

Qui la vita è violenta e forte e non chiede permesso. Tutti vendono qualcosa. Tutti gridano. Tutti ti invitano. Tutti ti salutano e ti sorridono. Tutti ti ringraziano. Come tante formichine iniziano a brulicare non prima delle 11 di mattina, tipo che alle 9 c’è il deserto, e dopo le 18 di sera è finito tutto. Scende il buio quello vero. Le vie non illuminate. I quartieri cambiano faccia. Siamo comunque a 2.000 metri e la luce te lo fa capire più di ogni altra cosa. Sia quando è bianca e ti accieca a mezzogiorno che quando se ne va, ma se ne va per davvero. Circa otto ore di delirio semi-organizzato dal continuo fischiare dei poliziotti, dispiegati in grande numero per le strade in tenuta anti-sommossa perenne. L’illusione di sicurezza mista al dubbio che stia per succedere qualcosa. E quindi abbiamo girato e visto tutto quello che si poteva: dallo Zocalo e i suoi dintorni caotici che sembrano Bari, alla tranquillità fighettosa di Roma e Condesa che sembrano Parigi e dove andrei a vivere da domani, dai mariachi stanchi in Piazza Garibaldi a Coyocan e il suo fridakahlismo esagerato, i mercati coperti e scoperti, i palazzi, i musei, le chiese, quante chiese… Ah, e poi siamo stati a Teotihuacan. Dove, a lato di quanto ce freghi degli aztechi, quello che conta è che Cost (con un cappello da pierina) abbia salito e sceso 235 gradini all’una di pomeriggio senza “intripicuare” e senza prendere un’insolazione. E solo questo valeva la visita alla città ed al sito archeologico…
Ora si parte per Oaxaca. Cambiano le dimensioni, resta lo spirito, quello nel cuore e quello nel mezcal…

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