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Categoria: viaggio di nozze

THE BEGINNING IS THE END IS THE BEGINNING

Siamo a Cancun, in aeroporto. Inizia la strada per il ritorno. Domattina saremo a Milano. Iniziano i resoconti, le valutazioni, i pensieri. E la malinconia sale già ineluttabile. Prima di tutto colpisce il pensiero riguardo la nostra totale impreparazione al freddo dell’inverno, alla città di sempre, ai ritmi della quotidianità. Che stagione è mica “lì da voi”??? E un pensiero corre al concetto di lavoro, diobuono, cazzo se lo ricorda come è fatto il lavoro ?!?

Le valige piene di vestiti umidi e sporchi. La testa piena di immagini di posti stupendi. Tutto quello che abbiamo fatto. Tutto quello che avremmo voluto fare e che non abbiamo fatto. I giorni intensi. I giorni sprecati. Le tappe riuscite. Quelle un po’ meno. Gli errori di valutazione. E le botte di culo. Fondamentali. Un mese irripetibile. Indimenticabile. Come quelle vacanze estive all’avventura di inizio università. Come l’interrail. Ma molto meglio. Che la consapevolezza dell’età non ci ha fatto perdere il gusto della scoperta e dell’incoscienza. Un viaggio così lungo, più lungo della somma dei giorni e delle ore. Lungo quanto ti puoi emozionare nell’imparare quello che non conosci. Nel farti capire in una lingua che non sai e che poi scopri di sapere (un pochino, eh). Nel trovare quello che cercavi. O magari nel non arrivarci per un attimo. (continua…)

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SO, THIS IS THE NEW YEAR !!!

E quindi buon anno !!! Sono stati giorni intensi questi a Playa del Carmen. Per questo abbiamo pubblicato poche foto. Perché eravamo troppo impegnati a riempirci gli occhi di bello, senza il tempo di “uscire l’aifonz” e immortalare ogni momento per condividerlo seduta stante. Siamo stati in posti tipo che mioddio il telefono non prende. Tremendo e incredibile, eh… A vedere le tartarughe, le razze, i cormorani, le fregate, i delfini, i coccodrilli (che non si sono visti) e altre migliaia di animali e vegetali più o meno noti nascosti tra la barriera corallina e le mangrovie. Siamo scesi nei cenotes per vedere l’acqua pulita e per cercare il silenzio assoluto, oltre che per constatare l’effettiva esistenza di Alush (vid Alush…) il guardiano del cenote, un animaletto simile all’uomo ma molto più piccolo. Abbiamo quindi smesso di cercare le radici di una o più culture che non capiremo mai, e che in ogni caso fanno sentire la loro presenza in ogni dove, per cercare di immergerci nella natura più natura possibile. Qui si vive il contrasto quotidiano tra la massiva presenza turistica, la costruzione cementizia violenta dell’intera costa e i paradisi tropicali, oasi di integrità da preservare, dove ogni giorno una tartaruga salirà a pelo d’acqua per respirare fottendosene altamente di trovarsi in mezzo a centinaia di curiosi fuoriluogo col giubbotto di salvataggio e la gopro sulla fronte. Abbiamo fatto così anche noi. E ci è piaciuto molto. Guardare la natura per rendersene conto, che esiste davvero. Ehi ma sono veri questi animali. E poi farsi lo struscio sulla Quinta Avenida ad infocare la carta di credito nei “negozietti tanto carini”. In mezzo al bordello che pare Ibiza e Gallipoli all’ennesima potenza. E cercare di sentirsi più hypster che mai nei localini immersi nella giungla di Tulum, che qui costruiscono tutto con il legno per rispettare l’ambiente e tutto quello che mangi è organic. Già. Tutto e il contrario di tutto. Tutto è il contrario di tutto. Non è Messico ma è Messico. E ci piace. Tamarria into the wild. E ci manca ancora tanto da fare e da vedere. Milano stai lontana ancora per un po’ che ieri sera, imbucati a una festa in un resort sulla spiaggia, ho visto un cielo luminoso di stelle che non avevo mai visto prima e devo ancora capire dove ci guideranno in questo inizio di anno ancora tutto da navigare…

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CHIAPAS IN DAL CÙ !!!

Che questo passaggio in Chiapas marcasse male lo dovevamo capire subito. Il giorno di Natale avevo (involontariamente) la Maglietta Sbagliata degli WHAM! e Costanza invece aveva la febbre (ora si può dire). Abbiamo quindi seguito un irrispettoso digiuno nel giorno dell’anno dedicato all’abbuffarsi e avremo forse offeso qualche divinità Maya dell’abbondanza e dell’obesità che ci ha puniti con la permanenza in un hotel demerda, a 3 km dal centro, una struttura vetusta e sporca, frequentata da locals molto rumorosi e come dice Cost “pieno di escoria-colica” che nella sua lingua vuol dire genericamente qualsiasi tipo di batteri. Ci siamo quindi addormentati guardando un classicissimo “Mamma ho ri-perso l’aereo” doppiato in spagnolo. Il piccolo e dolce Kevin solo alcuni anni dopo avrebbe capito che preferiva “la ero” all’aereo… (continua)

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FELIZ NAVIDAD !!!

E Buon Natale.
Siamo nel piccolo e deserto aeroporto di Oaxaca. È la mattina del 25 dicembre e stiamo per prendere l’unico volo che parte stamattina per Tuxla Gutierrez, nel Chiapas. L’aereo ha le eliche. Cost ha appena fatto una brutta faccia. Da lì poi andremo a San Cristobal che è la nostra prossima destinazione. Oaxaca stupenda ed emozionante. Caldissima, accogliente e caotica nel suo piccolo. Per certi tratti simile a Manduria, nel vocabolario di similitudini Puglia-RestoDelMondo che Cost applica in ogni dove. Una città artistica dove fare arte è un lavoro vero, protetto e stimolato, promosso e considerato.

È strano comunque l’effetto di un Natale al sole, senza freddo e senza neve. Immersi in una cultura millenaria stratificata e complessa. Lontani da tutto e da tutti. Buon Natale ancora da questo posto pazzo colorato come noi. Adesso ci imbarchiamo. A tra poco.

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Ok siamo atterrati. Ora siamo in auto e tra circa un’ora raggiungeremo San Cristobal. Siamo nel Chiapas, terra di foreste e di rivoluzioni. Oggi ci concediamo il lusso di un pomeriggio di riposo, un po’ perché è Natale, un po’ perché ne sentiamo il bisogno fisico e mentale, un po’ perché siamo giustamente in vacanza.Qui il mio iperattivismo patisce e fa i conti con “una vita da seduta” Costy style. Che, solo e soltanto per oggi, vince al grido di “basta roba archeologica”. Da domani si riparte alla scoperta, perché qui intorno di roba da vedere ce n’è tanta… (continua)

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TENOCHITITLÀN ON MY MIND

Cinque giorni a Città del Messico sembravano tanti, e invece. La vastità degli spazi, il traffico caotico e statico allo stesso tempo, la quantità di cose belle da vedere alla fine hanno reso questi giorni fin troppi pochi per entrare nel tessuto fitto e intricato di questa che è molto più di una città, è un mondo. Alla fine siamo riusciti a spostarci da monculonia in centro. Hotel follemente bello in una corte di un palazzo storico a due passi dallo Zocalo, pieno di negozietti e ristorantini che ti cavano i pesos fuori dalle tasche senza nemmeno troppa fatica. A noi poi che siamo soggetti fin troppi facili. Che qui la vita è nelle strade e le strade sono la vita. Come se la città fosse un continuo mercato a cielo aperto dove si compra e si vende qualsiasi cosa. Le vie intere, come le corsie di un supermercato, offrono monoprodotti e monoservizi: la via degli stereo, la via dei ricambi auto, la via degli idraulici, la via dei vestiti da sposa seguita a ruota dalla via dei vestiti per i battesimi e così via. E poi il cibo dappertutto: un tacos a 10 pesos, mezzo euro. Ogni cinque metri c’è qualcuno che cucina qualcosa. L’odore è continuo. Qui si mangia ininterrottamente a tutte le ore, ovviamente per strada, in piedi e rigorosamente con le mani. Ed è tutto intricato e contorto come i cavi della corrente che si aggrovigliano sui pali della luce e al centro degli incroci. Sembra che tutto possa crollare da un momento all’altro. E invece funziona tutto. (continua…)

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EL MONSTRUO

Primo giorno e mezzo a Mexico City. L’impatto è devastante. Ti fa dimenticare il forzato politeismo (intesa come l’esagerata educazione superficiale) degli americani e ti fa capire subito quanto i latinos possano essere colorati, disordinati, incasinati, rumorosi, sporchi, tuttofare, organizzatissimi, approfittatori e come riescano a far funzionare questa mostruosa macchina enorme ed imperfetta surfando sull’orlo del tracollo ogni giorno che manda il Signore. Dicono addirittura che l’intera città galleggi su un sottosuolo magmatico dormiente che si mangia centimetri di terra ogni anno. Tecnicamente Città del Messico sta sprofondando sotto il suo stesso peso. Del resto il “peso” di 15 mln di persone si sente. La città è così tanto costruita ed asfaltata che la pioggia non riesce più nemmeno a filtrare nel terreno e quindi non si alimenta la falda e quindi c’è sempre grande siccità e quindi l’acqua scarseggia. Tutto questo ce lo racconta Gregorio o Gonzalo o Gustavo o Gutierrez, chiunque esso sia, il nostro driver che ci porta dall’aeroporto in hotel. Un messicano basso coi baffi bianchi che gli piace parlare. Qui scopriamo la prima grande pierinata della vacanza: il nostro hotel, da noi scelto appositamente sulla gran guida degli hotel per stronzi fighetti, è situato a 35 km dal centro della città. In pratica in un’altra città. Ovvero in un quartiere tutto biziness e palazzi vetrati. E questo è un problema perché la più grande piaga di questa città, più di tutte le altre, è il traffico. Come a Palermo. Ma molto peggio. Pare che ogni mattina ed ogni sera si riversino più di 5 mln di persone che entrano ed escono dalla città. Quindi la bellezza della nostra stanza con vista al 25esimo piano viene vanificata dalle ore perse per spostarsi verso le parti più interessanti da visitare. Perché i mezzi pubblici sono impraticabili e i taxi poco sicuri. Quindi? Un modo si trova sempre, ma si impara anche da questo. Dove le dimensioni contano e dove sei una briciola in un mare in continuo movimento non puoi permetterti di sbagliare quando vuoi tornare a casa e non sai come. Oggi è domenica e ci siamo mossi con più facilità. Siamo stati nel Zocalo, la piazza principale con tutto quello che le sta intorno. Palazzi coloniali, basiliche sfarzose, rovine azteche. Appena arrivati in centro Cost ha dichiarato “qui mi piace, qui sembra Bari”. Per colazione siamo finiti in una specie di locale tipico in stile veracruziano con tanto di mariachi band a far burdell alle nove della mattina. Cost euforica.

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TAKE ME TO THE PLACE I LOVE

Siamo in aeroporto a Los Angeles in attesa di imbarcarci per Mexico City. Situazione check-in e controlli a dir poco fuori controllo. Che manco a Jedda alla fine del Ramadan. Il contrario esatto di tutto quello che di americano ho apprezzato in questi giorni: indicazioni chiare, assistenza continua, repetita iuvant, tanti sorrisi. Qui invece niente. In quattro per farti un caffè da Starbucks e nessuno a dirti come fare il check-in all’aeroporto. Un paio d’ore di travaglio tra giappi deliranti, tutti spazientiti, orde barbare anziché code ordinate, ma pare che siamo riusciti a fare l’italianata per non imbarcare (e pagare) una valigia in più. Che tanto poi siamo in vacanza (e che vacanza!) quindi zero stress, facile a dirsi e meno a farsi. Adesso un respiro che si parte per una nuova avventura. Cambiati i dollari in pesos. No more roaming in terra messicana. Lasciamo Los Angeles con una sola convinzione: tornarci al più presto. Che un giorno fosse assurdamente poco per poterla anche solo capire, una città simile, lo sapevamo bene. Abbiamo quindi fatto la scelta “poveri che guardano i ricchi”: il city tour guidato con il bus aperto. Dopo un’iniziale fighettissima diffidenza, complice un tempo finalmente soleggiato, ci siamo lasciati portare lungo le strade della città alla scoperta dei quartieri e delle zone che hai sentito nominare in tutti i film che hai visto: Hollywood, Beverly Hills, Santa Monica, Venice Beach, etc. Case basse, spazi enormi, parcheggi ovunque, parchi e giardini curatissimi e il mare in città. Costy già pronta a rinnegare il suo amore per Niuiok Sity davanti a questo splendore. Io un po’ più conservativo, non mi sbilancio. Ma l’effetto è folgorante. Sarà il sole sarà il vento sarà il mare ma qualcosa da queste parti vibra forte e si fa sentire. Non puoi capirla e viverla girando con un bus a due piani, ma puoi farti almeno un’idea. È tutto bello, anche il giro serale alla disperata ricerca di una valigia da comprare. Mezzi pubblici pressoché inesistenti ma Uber efficientissimo ti porta anche a mangiare un hamburger. Tanta hypsteria portamivia, tanta America, tanto tutto. Ma è come se fossimo entrati in un ristorante e ci fossimo seduti solo per sentire il profumo uscire dalla cucina, senza nemmeno aprire il menu per ordinare… Ci sentiamo dal Mexico, cabrones !!!

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LEAVING VEGAS (cit.)

Siamo appena arrivati a Los Angeles e ciano resi conto di essere in uno degli edifici simbolo di Hollywood: il Roosvelt Hotel. Fuori piove troppo. Via dal deserto abbiamo ritrovato la pioggia, come se fosse lì ad aspettarci sulla costa. Nel cuore arido e scheletrico della Death Valley ci siamo sentiti piccoli, ma vestiti benissimo. Abbiamo detto no al trekking nei parcheggi. E ringraziato sti ammerigani superorganizzati che mettono i cessi chimici anche nel mezzo del nulla. Fatto foto. Selfie e contro-selfie. Guidato nelle uniche strade possibili che sembrano dirti “o ti fidi e prosegui o sei morto”. Da sotto il livello del mare a 6.000 piedi in meno di mezz’ora. Hai fatto benza? Spero di sì. La valle tutta spera di sì. Zabriskie Point non è solo un film, quindi. E poi dritti fino a Vegas. Dall’introspezione più totale all’espressione più volgare e riuscita dell’inutilità dell’essere umano. Una macchina perfetta. Pensata e progettata per farti spendere soldi in cambio di passatempi. Che fino ad un paio d’ore fa avresti potuto morire di sete e fame anche solo se ti si bucava una ruota, qui invece sete e fame non le puoi nemmeno pensare di avere perché qualcuno ti avrà già nutrito e dissetato senza che tu l’abbia nemmeno chiesto. Il paradiso per alcuni, l’inferno per altri. Un posto geniale, assurdo, esagerato, pazzesco, orribile ed affascinante, popolato di bestie umane di ogni forma e specie, superorganizzato e fottutamente fatto per farti stare bene. Quindi abbiamo fatto tutto quello che un turista medio deve fare. Girare gli hotel. Mangiare tanto e bene. Bere gratis. Giocare e vincere. Giocare e perdere. Guardare gli spettacoli. E di nuovo da capo. Per due giorni che sembrano infiniti. Che non esci quasi mai alla luce del sole, che dentro è sempre notte, è sempre l’ora di giocare. E dopo aver scommesso anche l’ultimo dollaro sulla via del parcheggio siamo partiti per Los Angeles. Quasi cinque ore di viaggio di cui un paio nel deserto e tre sotto una pioggia torrenziale. Ok paghiamo pegno. Il road trip finisce qui. Oggi giriamo la città. Domani lasciamo la macchina e voliamo verso Città del Messico per iniziare un nuovo viaggio, come se gin qui avessimo scherzato, e invece…

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HIGHWAY TO HELL

Abbiamo passato gli ultimi due giorni in viaggio, macinando chilometri dal mare alle montagne ai deserti. Siamo partiti con un tour della ricchezza sulla 17 mile drive, dove una volta c’era una vibrazione speciale ed oggi solo villone e campi da golf con vista oceano. Ecco, l’oceano. Enorme violento freddo affascinante caotico rumoroso attraente fragoroso. Lasciata la costa ci siamo fermati a dormire a Tulare, nel mezzo del nulla, in una stazione di servizio tra diners, pompe di benzina e motel da “camionisti in cerca di compagnia”. Ieri mattina siamo saliti a Sequoia per vederle, le sequoie. Due ore di tornanti e nebbia fottuta per arrivare, ma lo spettacolo vale lo sbattimento. Ha poco senso descriverle. Alcuni alberi hanno più di 3.200 anni di età. I rangers dicono che nessuno abbia mai visto una sequoia morire, ma che alcuni le abbiano sentite parlare. Elefante no dimentica. E quindi resti lì davanti a questi dinosauri ancora in vita, cerchi di fotografarli ma non entrano nell’inquadratura, fai le facce strane, ti misuri e ti senti irrimediabilmente piccolo. Poi ancora due ore di nebbia e tornanti per puntare verso la Death Valley, mentre già iniziava a scendere il buio. Abbiamo guidato per altre comode 6 ore su strade che sono così dritte “che sembra proprio di essere in America”. Il paesaggio cambia, la vegetazione sparisce, arriva il deserto, arriva il nulla. E ti caghi addosso mentre pensi all’omino della Hertz che ha fatto l’ultima revisione a sto carrettone che stai guidando e speri che sia un bravo omino, amante del suo lavoro come ogni americano medio. Qui i pensieri volano, la radio non prende, il telefono non prende, ti fidi solo del GPS e vai sempre fottutamente dritto. La Natura è roba seria da queste parti. Sia nella sua presenza, che (soprattutto) nella sua assenza. Grossa e violenta. Esige rispetto. Incute timore. You don’t mess with Nature… E dopo l’ultima montagna da 4.000 piedi inizia la discesa negli inferi, con le orecchie che si tappano e i freni che bruciano per arrivare sotto il livello del mare, nel posto più asciutto e desolato d’America, dove puoi solo sperare di non doverti fermare mai. E quando la speranza inizia a vacillare, all’improvviso, dopo quasi 12 ore in viaggio, appare in mezzo al deserto un Ranch. Finto che pare Gardaland ma è il posto più bello del mondo, in questo momento. Facce da giostrai, di gente che vive ai confini. Tutta questione di parametri credo, ai quali noi non potremo mai abituarci. Ora è mattina presto, usciamo da qui per vedere il nulla che ci circonda e poi, follia delle contraddizioni, in meno di due ore saremo nell’altro nulla, quello ricoperto da un ottimo impianto luci e da rumorosi effetti speciali: Las Vegas.

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IL MARE D’INVERNO

Si lo so, era un’idea come un’altra. partiti da San Francisco sotto una pioggia torrenziale, dopo aver visto le Painted Ladies e i murales di Mission in condizioni davvero estreme per le nostre meteoropatie, abbiamo percorso la 101 e la 1 in mezzo a un continuo autolavaggio. Palo Alto, Mountain View e Cupertino le abbiamo solo intuite dai cartelli stradali. Oh guarda lì dovrebbe esserci la Nasa. Santa Cruz pareva la Valsesia: verde e bagnata. E poi giù fino a Monterey. Dove anche ai locals sembra assurdo questo clima. Ma oggi c’è il sole, quindi suka. Che poi chissenefrega, e siamo pure fortunati perché i gabbiani non ci hanno nemmeno rubato il pranzo (cit.). Adesso andiamo a cercare le origini e le tracce di quella che fu un’epoca gloriosa per queste coste, noi figli degli anni ottanta e novanta, che abbiamo letto Sulla Strada in occupazione in seconda liceo, con permesso, rispetto e curiosità muoveremo i nostri passi lì dove qualcosa è stato cullato ed è poi esploso, perché alla fine i posti li fanno le persone. e viceversa.

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